I controlli fiscali, per quanto intrusivi, dovrebbero essere la norma, non l’eccezione.
La lotta all’evasione non dovrebbe essere uno strumento per aumentare il gettito. Ma per ridistribuire il reddito a favore di chi le tasse le ha sempre pagate: così ogni cittadino onesto avrebbe una misura di quanto paga in più grazie agli evasori, e toccherebbe con mano il beneficio di un’eventuale maggiore legalità.
Un Fisco moderno usa gli strumenti induttivi a scopo statistico per allocare meglio le sue risorse: se un individuo viene identificato come probabile evasore, non scattano cartelle o accertamenti, ma una richiesta di documentare spese e introiti, in tempi brevi. Solo in difetto di spiegazioni scatta l’accertamento, che a questo punto, però, ha un’altissima probabilità di portare a un rapido recupero di imposte evase. Non farà scena come i lampeggianti blu della Guardia di Finanza. Ma funziona meglio.
Quanto a efficienza, dunque, c’è molto da fare.
L’evasione si combatte anche con la trasparenza e la semplicità. Un normativa complessa e intricata come quella italiana moltiplica le possibilità di aggirare le regole, pagando meno del dovuto, e rende infinitamente più difficili e onerosi i controlli.
La ragione dello scarso utilizzo delle pene per i reati tributari è spiegato dalle scienze comportamentali: la volontà di applicare la pena è inversamente proporzionale al numero di persone che violano la legge e la fanno franca. In un paese dove si ha la percezione di un gran numero di evasori impuniti, chi finisce in prigione per reati tributari diventa un poveretto assoggettato a una pena iniqua. Comprendo l’indignazione, ma i problemi si risolvono con la razionalità, non con l’emotività: le manette agli evasori non sono servite a nulla e continueranno a non servire.
L’emulazione è il deterrente più efficace contro l’evasione: il singolo rispetta le regole che vede rispettate nella collettività a cui appartiene; ma non si possono cambiare i comportamenti collettivi se non si cambiano quelli individuali. Si può cercare di farlo rendendo ogni individuo compartecipe della responsabilità di non evadere. Oggi non è così. Molti italiani sono giustamente indignati per la prassi diffusa del pagamento in nero di prestazioni di lavoro e di servizio, al fine di evadere Iva, Irap e contributi sociali. Ma quanti di loro hanno accettato di pagare in nero un professionista o un artigiano per vedersi scontata l’Iva, o di farsi pagare in nero gli straordinari, maggiorati grazie ai contributi non versati dal datore di lavoro? La detraibilità delle imposte pagate non è servita a nulla. E se per pagare le imposte bisogna farle detrarre a qualcun altro, lo Stato non incassa niente e il sistema fiscale si complica inutilmente. Per rompere il cerchio è necessario che anche chi paga senza esigere la fattura o chi riceve un salario in nero sia responsabile dell’evasione, e chiamato a risarcire lo Stato congiuntamente a chi non emette la fattura o non paga i contributi. Con la possibilità di verificare le transazioni finanziarie, l’accertamento incrociato sarebbe possibile. E facilitato dall’interesse dell’evasore eventualmente scoperto a coinvolgere l’altro che ha permesso l’evasione.
Lo Stato dovrebbe però prima dare il buon esempio. Una volta si diceva che il buon esempio è la madre di tutti gli insegnamenti.